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mercoledì 21 dicembre 2016

Respinto l'attacco definitivo alla Costituzione, ripristinare la Costituzione Italiana originaria

Il 1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al socialismo”
(intervento di Dino Greco)

Diceva Togliatti nella sua relazione alla I sottocommissione della Costituente dedicata al tema cruciale dei Principii dei rapporti economico-sociali che “in un regime di pura libertà economica, cioè di pura competizione è inevitabile che masse ingenti di donne e di uomini siano privi degli indispensabili mezzi di sussistenza” perché “questa è infatti una delle condizioni affinché tutto il sistema economico capitalistico possa funzionare, ed è conseguenza di uno sviluppo che tende da un lato a concentrare le ricchezze nelle mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre dall’altro lato aumenta il numero dei diseredati”.
E aggiungeva che “anche se la massa dei diseredati in periodi di prosperità e in paesi particolarmente favoriti può tendere a diminuire, essa torna ad accrescersi in modo pauroso quando inesorabilmente sopravvengono i periodi di crisi”.
Togliatti proseguiva ricordando che “l’esperienza di tutti i paesi a capitalismo sviluppato mostra come per lo sviluppo stesso delle leggi interne dell’economia capitalistica la libera concorrenza genera il monopolio, cioè genera la fine della libertà. E si creano così ancora più rapidamente le condizioni in cui la proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza tendono a concentrarsi nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della Nazione”.
Poi arriva la stoccata decisiva: E’ per questo – affermava Togliatti - che occorre abbandonare “le concezioni utopistiche del vecchio liberalismo per dare corso ad un’opera ampia e radicale di riforma della struttura economica della società” perché “il prevalere nei principali paesi dell’Europa capitalistica di gruppi plutocratici reazionari ha portato in alcuni di essi alla totale liquidazione delle istituzioni democratiche, in altri ad una seria minaccia per la loro esistenza, in tutti o quasi tutti al tradimento dell’interesse nazionale da parte delle caste dirigenti reazionarie, e a quell’esasperato acutizzarsi di conflitti imperialistici che doveva metter capo alla catastrofe immane della seconda guerra mondiale”.
Quindi, ecco la trama essenziale su cui incardinare la nuova costituzione, il progetto di società di cui si doveva forgiare la strumentazione: centralità del lavoro, programmazione economica, ruolo decisivo della mano pubblica, cooperazione, forme di proprietà diverse da quella privata, controllo operaio sulla produzione, nazionalizzazione delle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico debbono essere sottratte all’iniziativa privata, libertà di impresa rigorosamente subordinata all’interesse sociale, sino all’esproprio della proprietà ove questo principio venga contraddetto.
E “democrazia progressiva”, come espansione della partecipazione popolare verso forme inedite di produzione e socializzazione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale.
Insomma: un processo di transizione, verso una società non più capitalistica. Un processo nel quale la dialettica e il conflitto sociale venivano concepiti come elementi costitutivi del progresso del Paese.
E’ questo il telaio politico su cui si sviluppa, nel ’56, l’elaborazione dell’VIII congresso del Pci, nell’intento di dare corpo ad un progetto, ad un’architettura politica e sociale capace di rispondere al tema gramsciano della rivoluzione in Occidente, di una via italiana al socialismo, sganciata dalla forma storica in cui il socialismo si era realizzato nell’Urss, capace di coniugare diritti civili e diritti sociali, libertà ed uguaglianza.

Certo, nella Costituzione non c’è scritto tutto questo, almeno non nei suoi presupposti teorici, ma c’è molto di tutto questo, nell’insieme e nelle parti, sia nei principii fondamentali che, in modo speciale, nei 13 articoli che compongono il titolo III.
Ed è per questa solida ragione che dal momento stesso della sua promulgazione la Costituzione è stata attaccata, con forza tanto maggiore quanto più essa metteva in forse l’egemonia delle classi dominanti e i rapporti sociali esistenti.
Non deve dunque sorprendere se fu l’irruzione sulla scena politica di un formidabile movimento operaio, fra la fine degli anni Sessanta e buona parte dei Settanta, a fare rivivere la Costituzione nel suo spirito originario e nei suoi contenuti più innovativi. Come non deve sorprendere se al declino prima e alla sconfitta poi di quel movimento, insieme alla dissoluzione del socialismo realizzato, sia corrisposto l’affermarsi del dominio assoluto del capitale e della sua ideologia in forme violentemente regressive in Italia come in larga parte del mondo.
Dalla fine degli anni Quaranta il mondo è profondamente cambiato.
Lo è, in primo luogo, il modello di accumulazione capitalistica conseguente al processo di finanziarizzazione dell’economia con i tratti di una vera e propria superfetazione usuraria che reagisce sull’economia reale distruggendo forze produttive e consumando irreversibilmente risorse naturali, con una rapidità che non ne consente il rinnovo.
E’ un modello che si fonda su una concentrazione inaudita della ricchezza e del potere, sull’esproprio della sovranità popolare e sull’ostilità alle democrazie come plasmate dalle costituzioni antifasciste che - certo non a caso - sono diventate in varie forme il bersaglio dichiarato dei gruppi dominanti che sempre più inclinano verso una torsione oligarchica e totalitaria del potere.

Ebbene, merita osservare come la Costituzione italiana e la discussione che nel lavoro costituente ne rappresentò l’incubazione, siano – nel tempo presente e per certi versi più di prima - di una stupefacente attualità e indichino la strada di un processo possibile di aggregazione di soggettività politiche, sociali, culturali che vivacchiano separate in una impotente diaspora autodistruttiva, confinate nell’irrilevanza o nella subalternità.

Si è in questi anni tentato, con recidivante testardaggine, di formare schieramenti politici a sinistra, contenitori di sigle, per lo più in vista di appuntamenti elettorali, con l’intenzione rivelatasi velleitaria di coagulare una massa critica sufficiente a riconquistare come che sia una qualche rappresentanza istituzionale, una sorta di certificato di esistenza in vita.
Quanto ai contenuti di questi variopinti rassemblement, la ricerca è stata sempre piuttosto vaga, sulla scia del convincimento che andare per il sottile avrebbe fatto morire il bambino nella culla.
Così è accaduto, ogni volta, che il bambino affetto da strutturale gracilità, si è schiantato subito dopo il primo vagito, quando non addirittura durante la gestazione. Fuor di metafora, le operazioni politiciste, prive di base sociale e di vero progetto politico, hanno sempre prodotto improbabili accrocchi e fragorosi insuccessi.
Si è anche cercato di aggirare la questione cruciale del programma con formule lessicali all’apparenza radicali, contrassegnate dal sigillo dell’antiliberismo.
Peccato che l’incerta semantica del termine non sia riuscita a spazzare via l’eterogenesi dei fini che si nascondeva dietro la formula solo in apparenza radicale e unificante.
Il fatto è che non si sfugge al tema di fondo: se non è chiaro dove si vuole andare è del tutto vano scapicollarsi nella ricerca di fantasiose ricette organizzativistiche.

Ora, come spesso accade, sono i fatti, la prassi sociale ad illuminare la strada, a far intravvedere possibilità nuove, semplici, ma rimaste inopinatamente inesplorate.

Per uno di quei paradossi che ogni tanto si verificano nella storia, dobbiamo questo a Matteo Renzi e ad essere sinceri dovremmo proprio ringraziarlo. Dovremmo ringraziarlo per la sua incontenibile brama di potere, per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una consorteria di lestofanti che in questi anni hanno dato plateale dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti.
Dovremmo ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa.
Infine, cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo, dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.

Il voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: il voto ha messo i ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra.
Una parte dei quali ha capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla loro parte mentre quelli che la vogliono liquidare stanno dall’altra: si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto socialmente connotato, sebbene non ancora di classe.
Chi sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne “Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto della disuguaglianza il proprio distintivo politico.

Certo, questa rivolta si è espressa nella sola forma oggi possibile.
Quella sorprendente corsa alle urne ha supplito al vuoto di un conflitto sociale organizzato e alla latitanza di un progetto politico che nessun soggetto politico ha sin qui saputo proporre con sufficiente chiarezza.

Per questo credo che l’esito del referendum parla un linguaggio chiarissimo e formula una domanda esplicita anche al frammentatissimo arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane, estranea e ostile al definitivo approdo liberale del Pd e purtuttavia (sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa.

Ebbene, io credo che il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie ricettive è questo: fare proprio, senza omissioni o riduzioni, il contenuto politico-sociale fondamentale della Carta del’48, declinarlo in obiettivi chiari e percepibili da tutti e da tutte, farlo divenire il comune denominatore, il patto vincolante di un progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta, dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino ad oggi si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti.
Il paradigma va rovesciato, perché per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.
Prima viene il progetto politico, e precisamente quello incardinato nella Legge fondamentale che abbiamo per così dire, “riconquistato” in uno scontro campale e che, a leggerla bene, non fa sconti a nessuno.
Per lungo tempo quel testo è stato smarrito, o sottovalutato, da alcuni interpretato come una sorta di icona inerte, da celebrarsi a buon mercato negli esercizi retorici senza concrete conseguenze, da altri che pensano non valga la pena impegnarsi per meno della rivoluzione, come un un tiepido compromesso di impronta borghese. Quando a me pare evidente che viva nella Costituzione un impianto di classe molto più robusto che in tante superficiali declamazioni di antiliberismo.
Mi fermo qui perché non è qui il luogo ove declinare, punto per punto, il progetto politico che nella Costituzione trova il proprio centro di annodamento e che può rappresentare l’incipit di una riscossa democratica.
Purché sia chiaro che è questo il lavoro che da oggi dobbiamo fare, senza perdere un solo momento.





Il disastro del Jobs act e il ministro Poletti

IL CAPOLAVORO DEL MINISTRO POLETTI

Secondo gli ultimi dati dell'INPS, fra Gennaio e Ottobre del 2016 sono stati attivati 1.370.320 contratti di lavoro a tempo indeterminato (che in verità, come ben sappiamo e come gli stessi dati sui licenziamenti più avanti mostrano, a tempo indeterminato propriamente proprio non sono). Questi nuovi contratti comprendono, ovviamente, le trasformazioni nella modalità del contratto 'a tutele crescenti' di rapporti lavorativi già esistenti. Le cessazioni sono state 1.308.680, per un saldo di +61.640 unità. Nel corrispondente periodo del 2015, il saldo, tenute sempre in debito conto le trasformazioni, era stato di +588.039 contratti (si fa per dire) stabili. Il dato del 2016 fa quindi registrare un peggioramento dell'89% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, e un peggioramento persino nei confronti del 2014. Lo stesso INPS fa osservare che tale crollo è ascrivibile alla netta riduzione degli incentivi a favore delle imprese. Le assunzioni a tempo indeterminato sono calate del 32% e aumentano visibilmente (per effetto dell'avvenuta soppressione dell'articolo 18) i licenziamenti per motivi 'disciplinari' (+27,4%; cosa dedurne? Il 'jobs act' funziona!).
Continua, denotando un'impressionante accelerazione, la corsa ai 'voucher', con un incremento percentuale del 32,3% soltanto nei primi dieci mesi dell'anno ancora in corso (per un vertiginoso totale di 121 milioni e mezzo di 'buoni' venduti).
Delineata la situazione, suonano alquanto distoniche le dichiarazioni del fallimentare (ma saldamente in sella) Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Da un lato, questi dice di essere pronto a “rideterminare dal punto di vista normativo il confine nell'uso dei voucher” e, dall'altro, dice che “il 'jobs act' è stata una buona legge, quindi non vi è ragione di intervenirvi”. Ora, chiunque è in grado di capire che, per quanto attiene al proposito di intervenire con una modifica nel regime normativo che discplina i 'voucher', l'ascoso intento è quello di neutralizzare (in caso di ammissibilità) l'indizione del Referendum con il quale la CGIL punta all'abolizione del suddetto obbrobrioso strumento e, verosimilmente, di adottare qualche illusorio provvedimento da dare in pasto “all’esercito di precari e voucheristi che (si suppone, visto anche l’alto dato giovanile registrato) ha votato No al referendum del 4 dicembre”. (1)
Mentre, ampliando la visuale, per quanto attiene ai magnifici risultati delle riforme del lavoro targate Poletti, ricordiamo, giusto per avere un'idea delle dinamiche tendenziali, che le assunzioni, riferite ai soli datori di lavoro privati, nel periodo gennaio-ottobre 2016 sono risultate 4.833.000, con una riduzione di 347.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-6,7%). Nel complesso delle assunzioni sono comprese anche le assunzioni stagionali (491.000).
Il fatto è che, al di là degli ormai scontati proclami propagandistici, l'attuale governo (clone del precedente) non può avere intenzione di effettuare alcuna sostanziale inversione di rotta rispetto alla ormai metastorica tendenza neoliberale che ha alienato a Renzi gran parte delle simpatie su cui questi ha, per un breve periodo, potuto contare. Al fondo, vi è sempre la vetusta idea in base alla quale l'impresa che massimizza i profitti genererebbe benefici diffusi, mentre il lavoro sarebbe un mero onere, un ostacolo a una competitività da portare allo spasimo.
Con l'idea di continuare ad agire dal lato dei costi per accrescere la competitività, non si fa altro che, in assenza di un consistente impulso al lato della domanda interna, finire in una situazione che Keynes definì 'equilibrio di sottocupazione', in una situazione cioè in cui il sistema economico, pur in presenza di livelli salariali ridotti, non si colloca vicino alla piena occupazione.
Sarebbe tempo che forze politiche e organizzazioni sindacali gettassero alle ortiche il ciarpame ideologico degli ultimi trenta anni.

Sergio Farris, 19/12/2016



1) Antonio Sciotto, 13 dicembre 2016: I dati confermano il «Flop Act» ma Poletti resta al governo

venerdì 2 dicembre 2016

Le bugie di Renzi e dei suoi r(o)enzini

Ho letto con interesse misto a sorpresa l'intervento del Segretario Provinciale di 
Abbiamo al governo un partito anti-austerity e non ce ne eravamo accorti


Brescia del Partito Democratico, Michele Orlando, uscito il 17 novembre sui giornali locali. A parte la surreale considerazione tesa a negare l'evidenza riguardo alla strumentalità, in chiave di consenso, dell'astensione italiana in occasione del voto per l'approvazione del bilancio europeo, ciò che suscita maggiore incredulità è il tentativo di descrivere il PD come l'alfiere del Keynesismo in un'Europa dove domina l'indirizzo delle politiche di austerità. Il Partito Democratico, fin dalla sua fondazione nel 2007 da parte di Walter Veltroni, non è mai stato Keynesiano, come non lo sono mai stati Tony Blair o Bill Clinton, a meno che non si intenda per Keynesismo una particolare teoria, definita a suo tempo da Joan Robinson in un modo piuttosto eloquente. L'Unione Europea è basata sull'ordoliberalismo tedesco, cioè su un ordinamento che pone le istituzioni a guardia della sacralità della concorrenza nel mercato. In particolare, ciò determina una costante compressione della domanda interna, al fine di ottenere costanti surplus nei conti con l'estero. L'Unione Europea è fondata sugli avanzi commerciali tedeschi, al cui traino i paesi satelliti devono agganciarsi comprimendo il più possibile i salari, se vogliono restare a far parte del convoglio (e ciò avviene a spese del resto del mondo, esportando deflazione). Nonostante questa Unione Europea fosse già un fallimento conclamato, il Governo di Renzi e Padoan si è posto, fin dal suo insediamento, in perfetta aderenza ideologica e pratica con le politiche da essa richiestegli. Altrimenti per quale ragione, se non per mortificare i salari, è stata fatta, andando contro i sindacati, la peggior riforma del lavoro degli ultimi 30 anni (il jobs act, una delle cosiddette “riforme strutturali”)? Se tutto andrà “bene”, la Commissione Europea ci concederà un margine di flessibilità per raggiungere un deficit, l'anno prossimo, del 2,3% (contro il 2% preventivato). Vogliamo renderci conto che, per adempiere al “Fiscal compact”, persino il famoso 3% di deficit del bilancio previsto dal Trattato di Maastricht è ormai un miraggio? Dov'è la politica espansiva Keynesiana? Si tratta, al massimo, di austerità con un piccolo sconto! E come si può risultare credibili quando lo stesso Renzi ha sempre dichiarato che, comunque, l'Italia rispettarà sempre le regole? Se il PD di Renzi esecrasse veramente l'austerità e il pareggio di bilancio avrebbe dovuto presentare, 3 anni fa, in luogo di una riforma costituzionale che (con un parlamento anòdino) rende il paese ancora più permeabile agli ordini della UE, un disegno di legge costituzionale per l'abrogazione di una parte dell'art. 81 della Cost., quella introdottavi nel 2012 (il pareggio di bilancio, appunto). Ancora: perchè, un anno e mezzo fa, la Grecia è stata lasciata sola nella sua (quella sì, vera) polemica contro l'austerità europea? Ma vi è di più: Lord Keynes si rivolterebbe nella tomba se potesse sentire che, dietro l'alibi di un ampliamento del deficit per le (sacrosante) emergenze come il recente sisma e l'accoglienza dei migranti, si concedono in realtà, ancora una volta, sostanziosi sgravi fiscali alle imprese (nonché svariate e disorganiche elargizioni elettorali), come se i problemi del paese fossero sempre l'offerta e la competitività di costo, mentre si destina pochissimo ad investimenti pubblici e welfare. Certe politiche non funzionano perchè sono inappropriate e non colgono l'essenza del problema economico, non perchè le dosi di sconti somministrate le volte precedenti non erano sufficienti. Ciò è stato più che dimostrato dal fallimento della politica di sgravi legati al “contratto a tutele crescenti”. Ma in questo paese, forse, dobbiamo tornare a essere capaci di distinguere la realtà dalla propaganda.
di
Sergio Farris