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mercoledì 9 settembre 2015

Rifondazione comunista e Syriza dopo l'accettazione del terzo memorandum da parte di Tsipras

Dopo la conclusione-shock della trattativa Grecia-Troika, è partita la discussione sulla valutazione e sulle conseguenze delle mossa del governo greco, e di Tsipras in particolare.
Riportiamo qui sulla questione la presa di posizione della segreteria nazionale del Partito della Rifondazione Comunista e l'intervento di tutt'altro tenore fatto da Dino Greco alla direzione Nazionale del Prc del 5 settembre 2015


Questo il comunicato della segreteria nazionale del Prc-Se
(http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=19305)

Sosteniamo Syriza e Tsipras alle prossime elezioni greche

La vittoria di Syriza e l’elezione di Alexis Tsipras a primo Ministro Greco hanno suscitato molte aspettative e speranze in tutta Europa. La stessa vittoria dei NO nel referendum del 5 luglio scorso aveva rafforzato questa speranza.
La sottoscrizione del diktat imposto dall’Unione Europea ha quindi rappresentato una forte delusione e le divisioni nate in Syriza in seguito a quella firma costituiscono un ulteriore fattore di sconcerto e disorientamento.
Riteniamo sbagliato addossare a Tsipras e a Syriza la responsabilità di questa situazione. Il diktat dell’Unione Europea ha segnalato in modo brutale quali sono gli attuali rapporti di forza tra le classi a livello Europeo. La responsabilità principale di questa situazione non può certo essere addossata sulle spalle di chi più di tutti ha provato a rovesciare le politiche di austerità. La responsabilità di questa situazione ricade sulle nostre spalle – sulle spalle delle sinistre e del movimento operaio di tutta Europa – e ci obbliga ad un salto di qualità nella costruzione di un movimento di lotta italiano ed europeo contro le politiche neoliberiste e questa Unione Europea a trazione tedesca.
L’errore che abbiamo fatto – noi per primi – è stata di sopravvalutare la possibilità della sola Grecia di rovesciare una situazione così pesantemente compromessa. Il nostro stesso slogan “cambia la Grecia, cambia l’Europa” si è rivelato non realistico, ha generato illusioni ed è all’origine di larga parte della delusione odierna.
Si tratta quindi di riprendere la lotta a partire dalla piena consapevolezza delle pesantezza della situazione ma anche del fatto che abbiamo perso una battaglia ma non la guerra. Dobbiamo quindi ripartire da una situazione più difficile di quella che ci eravamo immaginati sei mesi fa evitando di farci guidare dagli stati d’animo o da nuove illusioni.
Come sostenevamo nelle nostre tesi congressuali del Congresso di Perugia nel 2013: ” L’Unione Europea così com’è stata costruita è strutturalmente un’Europa neoliberista a trazione tedesca, che sta distruggendo il livello di civiltà conquistato nel secondo dopoguerra ed è concreta la possibilità che questa gestione della crisi la porti ad implodere e disgregarsi. Allo stato attuale, senza metterne in discussione le fondamenta, ovvero i Trattati vigenti e ruolo della Bce, il patto di stabilità e crescita e il Fiscal compact, è inesistente la possibilità di modificare dall’interno l’Unione Europea, puntando sull’ipotetica costruzione di una “Europa politica”, come vengono proponendo il Pd e la socialdemocrazia europea. Il sistema di governance europea esiste, si fonda sul dogma monetarista, e non prevede democrazia nelle scelte di politica economica ma, appunto, piloti automatici. Questa constatazione, fermo restando il giusto intento, che qui ribadiamo, di conseguire una dimensione europea del conflitto di classe e del processo di trasformazione, mette però in discussione il punto di analisi che ci aveva caratterizzato e che individuava nell’Unione europea uno spazio aperto alla possibilità di determinare politiche di fuoriuscita dal neoliberismo.”
Questa analisi risulta confermata da quanto accaduto in Grecia.
Nella situazione di divisione, che ha determinato per il governo Greco la perdita della propria autonoma maggioranza parlamentare, riteniamo corretto che Tispras abbia deciso di rassegnare le dimissioni e di avviare il percorso per arrivare a nuove elezioni. Proseguire l’attività governativa basandosi sull’appoggio delle forze che hanno portato al disastro la Grecia avrebbe cancellato ogni possibilità di porre in discussione le politiche di austerità.
Esprimiamo quindi il nostro pieno sostegno a Syriza e a Tsipras ed auspichiamo che possano vincere le prossime elezioni greche, dando vita ad una maggioranza parlamentare autosufficiente e quindi ad un governo in grado di contrastare nel concreto i contenuti antisociali presenti nel memorandum, di ristrutturare il Debito e di continuare la battaglia contro questa Europa naoliberista e i suoi trattati. Per questo auspichiamo che le divisioni di oggi possano essere ricomposte nel nome della comune lotta contro l’austerità e il neoliberismo.
Riteniamo parimenti necessario avviare immediatamente il percorso di costruzione del soggetto unitario della sinistra in Italia. Contro questa Unione Europea e le politiche liberiste non bastano le lamentele: serve un vero e proprio Comitato di Liberazione Nazionale ed Europeo. Solo una forte sinistra antiliberista e un grande movimento di lotta da costruirsi in ogni paese e in tutta Europa può rovesciare questa Unione Europea e costruire un’Europa dei popoli.

La segreteria nazionale del Partito della Rifondazione Comunista


Questa invece la riflessione di Dino Greco

(http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2015/9/9/45663-in-grecia-la-resa-non-ha-lasciato-in-piedi-nulla-ma-la/)
"In Grecia la resa non ha lasciato in piedi nulla. Ma la sconfitta serve se non la neghi"

Il peggio che si può fare nei momenti cruciali (e questo lo è di certo) è essere reticenti, con se stessi e fra di noi, compiendo - per un malintesa interpretazione del senso di responsabilità - omissioni ed autocensure che, alla fine, si traducono in atti di autolesionismo politico.
Invece è indispensabile venire in chiaro, assumendosi fino in fondo la responsabilità di gesti ed opinioni.
Mi riferisco, ovviamente, agli sviluppi politici della vicenda greca che stanno producendo una catena di eventi negativi nella sinistra, dentro e fuori da quel paese.
Il momento di svolta nello scontro del governo Tsipras con la troika è avvenuto con la decisione del gruppo dirigente di Syriza di ricorrere al referendum sul diktat dell'Eurogruppo: una decisione molto forte, accompagnata dalla dichiarazione che il nuovo governo di Atene si sarebbe attenuto al responso popolare, qualunque esso fosse stato.
Le agenzie che monitoravano le intenzioni di voto, manovrate dalla destra, davano il risultato in forse, col ‘Sì’ in progresso come conseguenza delle pratiche terroristiche messe in atto dalla Bce (la chiusura degli sportelli bancari) al fine di generare un clima di paura tale da stroncare la resistenza dei greci.
Ma questo non accade.
Il ‘No’ non solo vince, ma registra un successo di proporzioni stupefacenti.
Syriza incassa un consenso enormemente superiore a quello che le aveva consentito di andare al governo, eppure Tsipras decide di non capitalizzarlo.
Mentre in piazza Sintagma si festeggia la segreteria del partito decide (a maggioranza) che al tavolo del negoziato non si rilancerà.
Ora, vorrei che nessuno considerasse ozioso interrogarsi sul perché Tsipras abbia indetto il referendum per poi – a vittoria conseguita – dichiarare la resa senza condizioni su quel medesimo testo che egli aveva definito “umiliazione e disastro”.
Invece, pudicamente, si sorvola su questo passaggio a vuoto.
Di fronte all'evidente incongruenza di quel comportamento meglio non porsi troppe domande, meglio immaginare che forse non è dato sapere tutto, ma una ragione ci sarà pur stata… (sopravvive intramontabile, nella sinistra, un riflesso fideistico che impedisce di guardare in faccia la realtà quando questa mette in discussione personalità a cui ci si era votati).
In effetti c’è sempre una spiegazione razionale: cercarla, però, non costituisce un ingeneroso processo alle intenzioni, serve semmai a capire di più, ad avvicinarsi alla verità delle cose, per spiacevoli che possano rivelarsi.
Provo a spiegarmi con un aneddoto.
Capita, talvolta, nella gestione di una vertenza difficile, caratterizzata da lotte e scioperi duri e prolungati, che il sindacalista che la guida si convinca (o tema) di non farcela, di non avere più frecce al proprio arco e avverta come insuperabile la forza del padrone che mette in atto rappresaglie, minacciando di chiudere la fabbrica.
Come uscirne, considerato che la parte più combattiva dei lavoratori non demorde?
La soluzione è quella di rimettere loro il giudizio, attraverso un pronunciamento che serva a decidere se continuare la lotta o a chiudere purchessia lo scontro ingaggiato.
Il sindacalista sa che in questi frangenti, sotto la sferza del il ricatto padronale, alla parte dei lavoratori che sta sempre col padrone si aggiunge quella meno combattiva e che anche nel proprio fronte, fiaccato dalla durezza del conflitto, si possono determinare degli smottamenti.
Il sindacalista pensa, in definitiva, che perderà il referendum e che dovrà capitolare, ma che così salverà la coscienza perché saranno stati i lavoratori a deciderlo.
Tuttavia, quando questo accade, dentro quel sindacalista, qualcosa si rompe, irrimediabilmente.
Ecco, io credo che in Grecia sia successo qualcosa del genere, con l’aggravante che l’Oki aveva stravinto e che l’abbandono della posizione è stata perciò vissuta come un evento incomprensibile, oltre che catastrofico.
E’ nota la spiegazione adottata: il referendum – si è detto - era contro l’austerità, ma non contro l’euro. Tenere ferma la posizione avrebbe comportato l’aborrita ‘grexit’, come minacciato dall'ineffabile signor Shauble.

Qui però sta il punto.
Se le due opzioni - fine dell’austerità e permanenza nell’area della moneta unica – sono in aperto conflitto, quale delle due prevale sull'altra?
Se la scelta è per la moneta, la lotta all'austerità passa inevitabilmente in secondo piano e il memorandum che ne è la quintessenza diventa l’orizzonte in cui da quel momento ti muovi.
In altri termini, il ‘No’ all'austerità vale solo fintanto che non sia in discussione la permanenza nell'euro. Fuori da quella cornice non c’è che la resa.
Tutto ciò che è seguito è la conseguenza del vicolo cieco in cui l’assenza di alternative (pensate, parzialmente, dal solo Varoufakis, ma subito rigettate dalla maggioranza della segreteria di Syriza) ha cacciato il confronto, mai in realtà esistito, perché in esso la Commissione europea, la Germania, la Bce e il Fmi si sono comportati esattamente come il gatto col topo, come lo strozzino con la sua vittima.
Sento sproloquiare sul presunto “leninismo” che avrebbe ispirato la mossa di Tsipras.
Si cita il Lenin di Brest Litovsk, quando nel 1918 i bolscevichi fecero durissime concessioni territoriali agli imperi centrali. Piccolo particolare: con quel trattato Lenin ritirò la Russia divenuta sovietica dalla guerra e difese la rivoluzione, il potere rivoluzionario e le sue conquiste.
In Grecia la resa non ha lasciato in piedi nulla. E temo che il peggio debba ancora venire.
L’illusione che ora sia possibile una gestione “da sinistra” del memorandum è il frutto più avvelenato della capitolazione: che sia oggi Tsipras a spiegare che quelle misure iugulatorie possono rimettere in corsa la Grecia quando rappresentano la più drammatica continuità con le vecchie politiche contro le quali Syriza è nata e ha vinto, mette grande tristezza.
Fra gli (inevitabili) effetti collaterali della sottoscrizione del diktat c’è la drammatica spaccatura di Syriza e – ciò che è peggio – c’è il vulnus democratico inflitto al partito il cui comitato centrale aveva respinto a maggioranza l’accordo, cosa che ha provocato le dimissioni del segretario, Tasos Koronakis, e quelle dell’ultimo segretario del Synaspismos, dal quale Syriza stessa è nata. Anche Theodoros Kollias (ghost writer di tanti interventi di Tsipras) ha abbandonato il partito, mentre l’organizzazione giovanile si sta sfaldando.
Ma c’è di più. Ora si va alle elezioni. E verosimilmente Tsipras non avrà la maggioranza assoluta.
Se la conquistasse dovrebbe comunque applicare diligentemente le misure sottoscritte con la troika.
Se non l’avrà dovrà farlo alleandosi con il Pasok e con To Potami, se non addirittura con la destra di Nuova democrazia in una grande coalizione, condividendo il potere (si fa per dire) con le forze contro cui Syriza aveva combattuto sino a due mesi fa.
Ora, vedo con estrema preoccupazione che nel gruppo dirigente del partito e in quello de L’Altra Europa si sta affermando un orientamento che suona come un’adesione incondizionata alla figura carismatica di Tsipras sino al punto di spendersi nel sostegno alla sua campagna elettorale.
L’A.E. parla addirittura di un proprio “legame indissolubile” col nome di Tsipras che “campeggia nel logo stesso dell’A.E”.
Insomma, noi dovremmo essere con Tsipras…a prescindere. Punto e basta.
Se è così, ci sono tutte le premesse per una profonda involuzione culturale, oltre che politica, della nostra strategia.
Se l’attuale linea di Tsipras diventa anche la nostra nuova bandiera, che ne è della nostra alternatività al Pse, al Pd (non solo nella versione di Renzi), alle politiche di austerità, al liberismo?
Quale torsione politica subirebbe la stessa ricerca, data più volte per raggiunta, di una “Costituente di sinistra”?
Quale profilo politico e programmatico assumerebbe, nell'insieme e nelle parti, un soggetto già così precario nelle sue figure più rappresentative?
Si vede già come alcuni dei partecipanti all'allegra Brigata Calimera abbiano prontamente fatto – a loro modo –i conti con la sconfitta di Tsipras per affogare nella culla (Sel) i propri neonati propositi di alternatività dichiarando che alle prossime elezioni amministrative andranno col Pd ovunque possibile.
La battaglia iniziata da Syriza, così carica di suggestioni e di potenzialità eversive dell’ordine capitalistico europeo, rischia, nel suo crepuscolo, di venire riassorbita (e noi con essa) dentro uno schema culturale subalterno che, in quanto tale, non sa più individuare le potenziali rotture di faglia per adattarsi al modello incarnatosi nella formazione economico-sociale europea.
La sconfitta serve se non la neghi, se la sai chiamare con il suo nome e se ne individui lucidamente le ragioni; e se sai spingere l’esame critico sino alla radice del tuo gap teorico e politico, come seppe fare Antonio Gramsci dopo la sconfitta operaia nel biennio rosso e dopo l’avvento del fascismo.
Altrimenti sulla nostra impotenza si consumerà una nuova pesante sconfitta di tutta la sinistra europea, non nella forma di una rivoluzione passiva, ma in quella di una vera e propria svolta che muterà (e già sta mutando) in forme reazionarie inedite il carattere dell’Europa.