“Il
1956, il Pci e il progetto di una nuova società. La via italiana al
socialismo”
(intervento
di Dino Greco)
Diceva
Togliatti nella sua relazione alla I sottocommissione della
Costituente dedicata al tema cruciale dei Principii dei rapporti
economico-sociali che “in un regime di pura libertà economica,
cioè di pura competizione è inevitabile che masse ingenti di donne
e di uomini siano privi degli indispensabili mezzi di sussistenza”
perché “questa è infatti una delle condizioni affinché tutto il
sistema economico capitalistico possa funzionare, ed è conseguenza
di uno sviluppo che tende da un lato a concentrare le ricchezze nelle
mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre dall’altro lato
aumenta il numero dei diseredati”.
E
aggiungeva che “anche se la massa dei diseredati in periodi di
prosperità e in paesi particolarmente favoriti può tendere a
diminuire, essa torna ad accrescersi in modo pauroso quando
inesorabilmente sopravvengono i periodi di crisi”.
Togliatti
proseguiva ricordando che “l’esperienza di tutti i paesi a
capitalismo sviluppato mostra come per lo sviluppo stesso delle leggi
interne dell’economia capitalistica la libera concorrenza genera il
monopolio, cioè genera la fine della libertà. E si creano così
ancora più rapidamente le condizioni in cui la proprietà dei mezzi
di produzione e quindi la ricchezza tendono a concentrarsi nelle mani
di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita
di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse
esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per
mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre
imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro
l’interesse del popolo, della Nazione”.
Poi
arriva la stoccata decisiva: E’ per questo – affermava Togliatti
- che occorre abbandonare “le concezioni utopistiche del vecchio
liberalismo per dare corso ad un’opera ampia e radicale di riforma
della struttura economica della società” perché “il prevalere
nei principali paesi dell’Europa capitalistica di gruppi
plutocratici reazionari ha portato in alcuni di essi alla totale
liquidazione delle istituzioni democratiche, in altri ad una seria
minaccia per la loro esistenza, in tutti o quasi tutti al tradimento
dell’interesse nazionale da parte delle caste dirigenti
reazionarie, e a quell’esasperato acutizzarsi di conflitti
imperialistici che doveva metter capo alla catastrofe immane della
seconda guerra mondiale”.
Quindi,
ecco la trama essenziale su cui incardinare la nuova costituzione, il
progetto di società di cui si doveva forgiare la strumentazione:
centralità del lavoro, programmazione economica, ruolo decisivo
della mano pubblica, cooperazione, forme di proprietà diverse da
quella privata, controllo operaio sulla produzione, nazionalizzazione
delle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico debbono
essere sottratte all’iniziativa privata, libertà di impresa
rigorosamente subordinata all’interesse sociale, sino all’esproprio
della proprietà ove questo principio venga contraddetto.
E
“democrazia progressiva”, come espansione della partecipazione
popolare verso forme inedite di produzione e socializzazione della
ricchezza prodotta dal lavoro sociale.
Insomma:
un processo di transizione, verso una società non più
capitalistica. Un processo nel quale la dialettica e il conflitto
sociale venivano concepiti come elementi costitutivi del progresso
del Paese.
E’
questo il telaio politico su cui si sviluppa, nel ’56,
l’elaborazione dell’VIII congresso del Pci, nell’intento di
dare corpo ad un progetto, ad un’architettura politica e sociale
capace di rispondere al tema gramsciano della rivoluzione in
Occidente, di una via italiana al socialismo, sganciata dalla forma
storica in cui il socialismo si era realizzato nell’Urss, capace di
coniugare diritti civili e diritti sociali, libertà ed uguaglianza.
Certo,
nella Costituzione non c’è scritto tutto questo, almeno non nei
suoi presupposti teorici, ma c’è molto di tutto questo,
nell’insieme e nelle parti, sia nei principii fondamentali che, in
modo speciale, nei 13 articoli che compongono il titolo III.
Ed
è per questa solida ragione che dal momento stesso della sua
promulgazione la Costituzione è stata attaccata, con forza tanto
maggiore quanto più essa metteva in forse l’egemonia delle classi
dominanti e i rapporti sociali esistenti.
Non
deve dunque sorprendere se fu l’irruzione sulla scena politica di
un formidabile movimento operaio, fra la fine degli anni Sessanta e
buona parte dei Settanta, a fare rivivere la Costituzione nel suo
spirito originario e nei suoi contenuti più innovativi. Come non
deve sorprendere se al declino prima e alla sconfitta poi di quel
movimento, insieme alla dissoluzione del socialismo realizzato, sia
corrisposto l’affermarsi del dominio assoluto del capitale e della
sua ideologia in forme violentemente regressive in Italia come in
larga parte del mondo.
Dalla
fine degli anni Quaranta il mondo è profondamente cambiato.
Lo
è, in primo luogo, il modello di accumulazione capitalistica
conseguente al processo di finanziarizzazione dell’economia con i
tratti di una vera e propria superfetazione usuraria che reagisce
sull’economia reale distruggendo forze produttive e consumando
irreversibilmente risorse naturali, con una rapidità che non ne
consente il rinnovo.
E’
un modello che si fonda su una concentrazione inaudita della
ricchezza e del potere, sull’esproprio della sovranità popolare e
sull’ostilità alle democrazie come plasmate dalle costituzioni
antifasciste che - certo non a caso - sono diventate in varie forme
il bersaglio dichiarato dei gruppi dominanti che sempre più
inclinano verso una torsione oligarchica e totalitaria del potere.
Ebbene,
merita osservare come la Costituzione italiana e la discussione che
nel lavoro costituente ne rappresentò l’incubazione, siano – nel
tempo presente e per certi versi più di prima - di una stupefacente
attualità e indichino la strada di un processo possibile di
aggregazione di soggettività politiche, sociali, culturali che
vivacchiano separate in una impotente diaspora autodistruttiva,
confinate nell’irrilevanza o nella subalternità.
Si
è in questi anni tentato, con recidivante testardaggine, di formare
schieramenti politici a sinistra, contenitori di sigle, per lo più
in vista di appuntamenti elettorali, con l’intenzione rivelatasi
velleitaria di coagulare una massa critica sufficiente a
riconquistare come che sia una qualche rappresentanza istituzionale,
una sorta di certificato di esistenza in vita.
Quanto
ai contenuti di questi variopinti rassemblement, la ricerca è stata
sempre piuttosto vaga, sulla scia del convincimento che andare per il
sottile avrebbe fatto morire il bambino nella culla.
Così
è accaduto, ogni volta, che il bambino affetto da strutturale
gracilità, si è schiantato subito dopo il primo vagito, quando non
addirittura durante la gestazione. Fuor di metafora, le operazioni
politiciste, prive di base sociale e di vero progetto politico, hanno
sempre prodotto improbabili accrocchi e fragorosi insuccessi.
Si
è anche cercato di aggirare la questione cruciale del programma con
formule lessicali all’apparenza radicali, contrassegnate dal
sigillo dell’antiliberismo.
Peccato
che l’incerta semantica del termine non sia riuscita a spazzare via
l’eterogenesi dei fini che si nascondeva dietro la formula solo in
apparenza radicale e unificante.
Il
fatto è che non si sfugge al tema di fondo: se non è chiaro dove si
vuole andare è del tutto vano scapicollarsi nella ricerca di
fantasiose ricette organizzativistiche.
Ora,
come spesso accade, sono i fatti, la prassi sociale ad illuminare la
strada, a far intravvedere possibilità nuove, semplici, ma rimaste
inopinatamente inesplorate.
Per
uno di quei paradossi che ogni tanto si verificano nella storia,
dobbiamo questo a Matteo Renzi e ad essere sinceri dovremmo proprio
ringraziarlo. Dovremmo ringraziarlo per la sua incontenibile brama di
potere, per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale
attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il
parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una
consorteria di lestofanti che in questi anni hanno dato plateale
dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti.
Dovremmo
ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è
corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa.
Infine,
cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere
contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua
intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non
soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo,
dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui
fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul
progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da
oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.
Il
voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra
queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: il voto ha messo i
ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte
e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra.
Una
parte dei quali ha capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla
loro parte mentre quelli che la vogliono liquidare stanno dall’altra:
si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto socialmente
connotato, sebbene non ancora di classe.
Chi
sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne
“Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità
a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto
della disuguaglianza il proprio distintivo politico.
Certo,
questa rivolta si è espressa nella sola forma oggi possibile.
Quella
sorprendente corsa alle urne ha supplito al vuoto di un conflitto
sociale organizzato e alla latitanza di un progetto politico che
nessun soggetto politico ha sin qui saputo proporre con sufficiente
chiarezza.
Per
questo credo che l’esito del referendum parla un linguaggio
chiarissimo e formula una domanda esplicita anche al frammentatissimo
arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane,
estranea e ostile al definitivo approdo liberale del Pd e purtuttavia
(sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico
forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico
alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza
delle classi dominanti, in Italia e in Europa.
Ebbene,
io credo che il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie
ricettive è questo: fare proprio, senza omissioni o riduzioni, il
contenuto politico-sociale fondamentale della Carta del’48,
declinarlo in obiettivi chiari e percepibili da tutti e da tutte,
farlo divenire il comune denominatore, il patto vincolante di un
progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso
coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte
chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure
tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta,
dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino ad
oggi si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un
tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti.
Il
paradigma va rovesciato, perché per una volta, invertendo l’ordine
dei fattori il prodotto cambia.
Prima
viene il progetto politico, e precisamente quello incardinato nella
Legge fondamentale che abbiamo per così dire, “riconquistato” in
uno scontro campale e che, a leggerla bene, non fa sconti a nessuno.
Per
lungo tempo quel testo è stato smarrito, o sottovalutato, da alcuni
interpretato come una sorta di icona inerte, da celebrarsi a buon
mercato negli esercizi retorici senza concrete conseguenze, da altri
che pensano non valga la pena impegnarsi per meno della rivoluzione,
come un un tiepido compromesso di impronta borghese. Quando a me pare
evidente che viva nella Costituzione un impianto di classe molto più
robusto che in tante superficiali declamazioni di antiliberismo.
Mi
fermo qui perché non è qui il luogo ove declinare, punto per punto,
il progetto politico che nella Costituzione trova il proprio centro
di annodamento e che può rappresentare l’incipit di una riscossa
democratica.
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