Un governo di guitti
In vendita anche le poste |
Mi soffermo qualche istante su due recentissime dichiarazioni rilasciate, rispettivamente, dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal Ministro dell'economia Pier Carlo Padoan.
Il primo, commentando gli ultimi dati riferiti a febbraio su occupazione e disoccupazione diffusi dall'ISTAT, ha detto che le riforme del lavoro già attuate e l'impegno alla loro prosecuzione stanno fruttando i risultati sperati. L' altro, ha detto che l'impegno a proseguire il programma di privatizzazioni, con la cessione di ulteriori quote di Poste Italiane e di Ferrovie dello Stato per un controvalore atteso di 8,5 miliardi, è fondamentale per la riduzione del debito pubblico.
Come siamo potuti scadere al livello di una politica in decomposizione, che vive di declamazioni avulse dalla realtà fattuale? E come è possibile che, nonostante la lezione della crisi, la maggioranza della classe politica sia rimasta in uno stato di cieca adesione all'impianto ideologico neoliberista?
Nel primo caso, a indurre alla soddisfazione Gentiloni è il dato sul tasso di disoccupazione, che a febbraio è calato all'11,5% (dal 11,8% del mese precedente). Soltanto che, l'ISTAT ha anche certificato che è aumentata la consistenza numerica della forza lavoro inattiva, vale a dire di coloro che un'occupazione neanche la cercano. Se poi si tiene conto del fatto che, ai fini statistici, è considerato occupato chiunque abbia lavorato almeno un'ora nella settimana in cui l'ISTAT effettua le sue rilevazioni campionarie, si può immaginare perchè non ci si dovrebbe lasciare andare a facili entusiasmi. Infatti, sempre sulla scorta dei dati, le tipologie di lavoro “attivato” a febbraio (il livello dell'occupazione è in realtà stabile) sono per la gran parte precarie. Il contratto a tempo indeterminato a “tutele crescenti”, fiore all'occhiello del “jobs act”, ipersfruttato per il noto accesso “predatorio” agli incentivi, è già un ferrovecchio. Fior di studi attestano che fra l'indice di protezione legislativa dell'occupazione (cioè quel grado di tutela dei lavoratori che il “jobs act” si è così pervicacemente incaricato di indebolire) e il tasso di occupazione non vi è praticamente alcuna correlazione. Eppure, la religione gentiloniana, in perfetta continuità con quella renziana, insiste nel porre l'accento sui salvifici effetti delle suddette riforme (più flessibilità significherebbe meno disoccupazione). Infine, quando il Presidente del Consiglio parla di impegno alla prosecuzione delle riforme, si riferisce probabilmente alla surroga dei “voucher”. Sono questi, lo ricordiamo, i diabolici buoni lavoro che il governo si è trovato costretto ad abolire pur di scacciare con uno scongiuro, qualunque spettro che evochi una procedura di chiamata alle urne rivolta al corpo elettorale sovrano. A buon intenditore, poche parole. La teoria alla base delle riforme è inconsistente ma a Palazzo Chigi nessuno se ne avvede.
Il ministro Padoan ha invece affermato che senza gli 8,5 miliardi che si prevede di incassare dalla cessione di ulteriori quote di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato non si puó invertire la rotta ascendente del debito pubblico.
Trattandosi di un accademico di una certa levatura, ovviamente Padoan non può non sapere che un incasso una tantum (il quale potrebbe con tutta probabilità venire ben presto azzerato dalla rinuncia persistente a entrate come utili e dividendi) non ha nulla a che vedere con la riduzione del debito, il quale (ammesso lo si voglia considerare un problema prioritario a rischio di ingestibilità, il che non è) è un processo di lungo periodo che dipende dalla dinamica di crescita del Pil e dall'andamento dei tassi d'interesse. Un'entrata una tantum può servire, al massimo, per la riduzione del deficit pubblico in un determinato anno (come continuamente richiestoci, in ossequio allo sciagurato Fiscal compact, dalla Commissione UE). Oltre all'adempimento per via surrettizia ai dettami del Fiscal Compact, ci si sta ovviamente prestando, come sempre, all'interesse di “investitori” privati.
Padoan ha in proposito aggiunto, a titolo di rassicurazione, che il controllo delle aziende resterà pubblico. Bella novità! Ai soci privati, che intanto qualcosa (e forse anche più) contano nella “governance” delle aziende, interessa che la loro gestione sia di tipo privatistico (come del resto è già) e soprattutto, lucrativa. Ai privati non interessa tanto l'assetto proprietario formale.
Si tratta, insomma, di due vicende che valgono da conferme a fatti ricorrenti i quali dicono che siamo governati da una classe di politici-guitti, legati a idee disfunzionali, che contano poco o nulla ai fini di tutela dell'interesse pubblico onnicomprensivamente inteso e che altro non fanno se non cercare di spacciare qualche illusione per soluzione strutturale di problemi economici che nemmeno sfiorano. L'importante, per costoro, è rinviare più in là possibile le elezioni e sperare che la maggioranza del popolo riprenda a credergli.
Sergio Farris
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