Una analisi di ampio respiro non solo sul senso della vittoria di Trump negli USA, ma che illumina l'intera fase storica, volando alto sopra le chiacchiere e le miserie del sinistrese.
Qui riproduco solo il paragrafo finale, raccomandando la lettura dell'intero articolo.
4.
La vittoria di Trump ci parla della necessità di superare l’euro e
del socialismo
La vittoria di Trump parla direttamente a noi, cioè all’Europa e alla Germania. E, in secondo luogo, ci dice molto anche sulle tendenze del capitalismo e sulle conseguenze di tali tendenze. Dice in sostanza che la crisi del capitalismo e la conseguente contrazione della base produttiva e nei Paesi centrali porta all’espansione all’estero, che presto o tardi conduce a un contrasto sempre più forte tra capitali e tra stati. Ma dice anche che questa tendenza è stata pesantemente accentuata dalla integrazione europea, specialmente quella monetaria, in particolare dalle misure di austerity. Mentre Trump e Clinton, durante la campagna elettorale, parlavano in termini di migliaia di miliardi da spendere in lavori pubblici, il tanto sbandierato piano di investimenti del presidente della Commissione europea, Claude Junker, si è rivelata sempre più chiaramente come una bufala colossale e la moderatissima richiesta del governo italiano di un piccolo sforamento sui vincoli di bilancio per il terremoto e per l’immigrazione ha dato luogo a una battaglia campale con la Commissione. Chi critica, giustamente, il nuovo volto reazionario degli Stati Uniti trumpiani farebbe bene a domandarsi quanto Trump sia figlio, oltre che della crisi e dell’imperialismo Usa, anche del modo in cui l’Unione economica e monetaria, non solo la Germania, si è mossa negli ultimi anni contribuendo a creare pericolosi squilibri mondiali. Ma in Europa non è possibile neanche pensare a un programma di investimenti pubblici che permettano di riassorbire la disoccupazione e imprimere una crescita all’economia senza aver prima superato i vincoli europei che stanno alla base dell’integrazione valutaria europea e quindi la stessa integrazione valutaria. Infatti, non va dimenticato che l’euro è stato lo strumento che, attraverso la riduzione della domanda e del mercato interni, ha incentivato la spinta verso l’export. L’euro, in questo modo, ha accentuato la tendenza neomercantilista già presente in Germania e ne ha permesso l’estensione al resto dell’Europa, a partire dall’Italia. La ricerca europea di ampi surplus commerciali ha contribuito a produrre importanti squilibri economici a livello mondiale, tra i quali c’è senz’altro il rigonfiamento del debito commerciale statunitense.
Il modo di produzione capitalistico ormai da tempo non è più fattore di sviluppo delle forze produttive. Anzi, sta distruggendo capacità produttiva e risorse umane e ambientali, determinando una inversione radicale nella condizione delle classi subalterne dei Paesi avanzati, rispetto al lungo periodo di sviluppo delle forze produttive e di miglioramento delle condizioni del lavoro salariato, che, pur con alcune interruzioni, è andato dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla fine del Novecento. La globalizzazione, iniziata negli anni Novanta, e la crisi scoppiata nel 2007-2008 hanno colpito pesantemente il centro del modo di produzione capitalistico e la sua classe lavoratrice, riproducendo la disoccupazione di massa e portando la povertà persino fra chi lavora. Ma la polarizzazione sociale e il diffuso disamoramento verso la politica e i partiti tradizionali, che ne derivano, sono stati ricondotti in alvei tutto sommato innocui o addirittura controproducenti. La classe lavoratrice rimane nella condizione di spettatrice passiva o di massa di manovra strumentalizzata dai diversi settori in competizione delle élites capitalistiche, come accaduto nelle ultime elezioni presidenziali negli Usa. In Europa, dove pure il tradizionale bipolarismo viene messo in crisi, la classe lavoratrice viene distolta verso obiettivi che non hanno nulla a che fare con i motivi strutturali della crisi, come l’immigrazione, o che spesso sono solo un sottoprodotto del dominio di classe e hanno un impatto del tutto secondario sulle sue condizioni, come la corruzione o i costi della politica. Eppure, segnali positivi ce ne sono stati: Syriza in Grecia, Corbin nel Regno Unito, Podemos in Spagna, Sanders negli Usa. Il punto è che da nessuna parte, dopo i primi risultati positivi, si è riusciti a rompere con il quadro di riferimento ereditato dal periodo precedente, promuovendo una vera autonomia politica di classe. La sinistra non riesce ad avere piena consapevolezza che la fase storica del capitale è cambiata, rendendo obsolete le tattiche e le posizioni del passato, oppure non riesce a tradurre tale consapevolezza in una linea politica conseguente e coerente. Negli Usa, dove il quadro di riferimento è l’alternanza bipartitica, Sanders è stato ricondotto al sostegno di Hillary Clinton e in Europa, dove il quadro di riferimento è l’integrazione monetaria, la sinistra non è riuscita a smarcarsi dal condizionamento dell’europeismo, inteso come valore in sé positivo.
La ricostruzione di una autonomia politica non può passare unicamente per la crisi del centro-sinistra e del centro-destra tradizionali. Passa, in primo luogo, attraverso la capacità di rompere politicamente con qualsiasi illusione di alleanza con i settori della “sinistra” capitalistica che si sono fatti promotori della globalizzazione, i democratici negli Usa e il partito socialista europeo, e con i vincoli che finiscono per neutralizzare le spinte che, nonostante tutte le difficoltà, si producono all’interno delle società avanzate. Ma passa anche per la consapevolezza che, data la fine dei margini delle politiche di redistribuzione, è necessario mettere in discussione i rapporti di produzione esistenti, che stanno alla radice della sovraccumulazione, della distruzione delle forze produttive e della tendenza espansionista delle varie frazioni del capitale. In definitiva, passa per la capacità di ricostruire le coordinate di una prospettiva complessiva di trasformazione della realtà. Né il programma di Trump né quello di Clinton possono risolvere, in ambito capitalistico, la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che porta alla contrazione delle basi della produzione della ricchezza sociale nei Paesi avanzati. Al massimo possono tamponarla momentaneamente. L’unica soluzione possibile alla crisi del capitale, in ambito capitalistico, sarebbe una distruzione di capitale di dimensioni fino ad ora inimmaginate.
In alternativa, c’è un’unica soluzione. Questa passa per il superamento dei rapporti di produzione privati, basati sull’appropriazione da parte di pochi del massimo profitto possibile. Quindi, la prospettiva su cui la sinistra deve muoversi non può che essere il socialismo, ossia la riconduzione dei mezzi di produzione sotto il controllo dei lavoratori associati secondo un piano razionale, che superi l’anarchia e la concorrenza del libero mercato. Sono proprio la fine delle illusioni legate alla globalizzazione e il ritorno dell’intervento dello Stato nel Paese guida del capitalismo, seppure in forme funzionali all’accumulazione di capitale, a portare una ulteriore prova della necessità e quindi dell’attualità storica del socialismo.
La vittoria di Trump parla direttamente a noi, cioè all’Europa e alla Germania. E, in secondo luogo, ci dice molto anche sulle tendenze del capitalismo e sulle conseguenze di tali tendenze. Dice in sostanza che la crisi del capitalismo e la conseguente contrazione della base produttiva e nei Paesi centrali porta all’espansione all’estero, che presto o tardi conduce a un contrasto sempre più forte tra capitali e tra stati. Ma dice anche che questa tendenza è stata pesantemente accentuata dalla integrazione europea, specialmente quella monetaria, in particolare dalle misure di austerity. Mentre Trump e Clinton, durante la campagna elettorale, parlavano in termini di migliaia di miliardi da spendere in lavori pubblici, il tanto sbandierato piano di investimenti del presidente della Commissione europea, Claude Junker, si è rivelata sempre più chiaramente come una bufala colossale e la moderatissima richiesta del governo italiano di un piccolo sforamento sui vincoli di bilancio per il terremoto e per l’immigrazione ha dato luogo a una battaglia campale con la Commissione. Chi critica, giustamente, il nuovo volto reazionario degli Stati Uniti trumpiani farebbe bene a domandarsi quanto Trump sia figlio, oltre che della crisi e dell’imperialismo Usa, anche del modo in cui l’Unione economica e monetaria, non solo la Germania, si è mossa negli ultimi anni contribuendo a creare pericolosi squilibri mondiali. Ma in Europa non è possibile neanche pensare a un programma di investimenti pubblici che permettano di riassorbire la disoccupazione e imprimere una crescita all’economia senza aver prima superato i vincoli europei che stanno alla base dell’integrazione valutaria europea e quindi la stessa integrazione valutaria. Infatti, non va dimenticato che l’euro è stato lo strumento che, attraverso la riduzione della domanda e del mercato interni, ha incentivato la spinta verso l’export. L’euro, in questo modo, ha accentuato la tendenza neomercantilista già presente in Germania e ne ha permesso l’estensione al resto dell’Europa, a partire dall’Italia. La ricerca europea di ampi surplus commerciali ha contribuito a produrre importanti squilibri economici a livello mondiale, tra i quali c’è senz’altro il rigonfiamento del debito commerciale statunitense.
Il modo di produzione capitalistico ormai da tempo non è più fattore di sviluppo delle forze produttive. Anzi, sta distruggendo capacità produttiva e risorse umane e ambientali, determinando una inversione radicale nella condizione delle classi subalterne dei Paesi avanzati, rispetto al lungo periodo di sviluppo delle forze produttive e di miglioramento delle condizioni del lavoro salariato, che, pur con alcune interruzioni, è andato dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla fine del Novecento. La globalizzazione, iniziata negli anni Novanta, e la crisi scoppiata nel 2007-2008 hanno colpito pesantemente il centro del modo di produzione capitalistico e la sua classe lavoratrice, riproducendo la disoccupazione di massa e portando la povertà persino fra chi lavora. Ma la polarizzazione sociale e il diffuso disamoramento verso la politica e i partiti tradizionali, che ne derivano, sono stati ricondotti in alvei tutto sommato innocui o addirittura controproducenti. La classe lavoratrice rimane nella condizione di spettatrice passiva o di massa di manovra strumentalizzata dai diversi settori in competizione delle élites capitalistiche, come accaduto nelle ultime elezioni presidenziali negli Usa. In Europa, dove pure il tradizionale bipolarismo viene messo in crisi, la classe lavoratrice viene distolta verso obiettivi che non hanno nulla a che fare con i motivi strutturali della crisi, come l’immigrazione, o che spesso sono solo un sottoprodotto del dominio di classe e hanno un impatto del tutto secondario sulle sue condizioni, come la corruzione o i costi della politica. Eppure, segnali positivi ce ne sono stati: Syriza in Grecia, Corbin nel Regno Unito, Podemos in Spagna, Sanders negli Usa. Il punto è che da nessuna parte, dopo i primi risultati positivi, si è riusciti a rompere con il quadro di riferimento ereditato dal periodo precedente, promuovendo una vera autonomia politica di classe. La sinistra non riesce ad avere piena consapevolezza che la fase storica del capitale è cambiata, rendendo obsolete le tattiche e le posizioni del passato, oppure non riesce a tradurre tale consapevolezza in una linea politica conseguente e coerente. Negli Usa, dove il quadro di riferimento è l’alternanza bipartitica, Sanders è stato ricondotto al sostegno di Hillary Clinton e in Europa, dove il quadro di riferimento è l’integrazione monetaria, la sinistra non è riuscita a smarcarsi dal condizionamento dell’europeismo, inteso come valore in sé positivo.
La ricostruzione di una autonomia politica non può passare unicamente per la crisi del centro-sinistra e del centro-destra tradizionali. Passa, in primo luogo, attraverso la capacità di rompere politicamente con qualsiasi illusione di alleanza con i settori della “sinistra” capitalistica che si sono fatti promotori della globalizzazione, i democratici negli Usa e il partito socialista europeo, e con i vincoli che finiscono per neutralizzare le spinte che, nonostante tutte le difficoltà, si producono all’interno delle società avanzate. Ma passa anche per la consapevolezza che, data la fine dei margini delle politiche di redistribuzione, è necessario mettere in discussione i rapporti di produzione esistenti, che stanno alla radice della sovraccumulazione, della distruzione delle forze produttive e della tendenza espansionista delle varie frazioni del capitale. In definitiva, passa per la capacità di ricostruire le coordinate di una prospettiva complessiva di trasformazione della realtà. Né il programma di Trump né quello di Clinton possono risolvere, in ambito capitalistico, la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che porta alla contrazione delle basi della produzione della ricchezza sociale nei Paesi avanzati. Al massimo possono tamponarla momentaneamente. L’unica soluzione possibile alla crisi del capitale, in ambito capitalistico, sarebbe una distruzione di capitale di dimensioni fino ad ora inimmaginate.
In alternativa, c’è un’unica soluzione. Questa passa per il superamento dei rapporti di produzione privati, basati sull’appropriazione da parte di pochi del massimo profitto possibile. Quindi, la prospettiva su cui la sinistra deve muoversi non può che essere il socialismo, ossia la riconduzione dei mezzi di produzione sotto il controllo dei lavoratori associati secondo un piano razionale, che superi l’anarchia e la concorrenza del libero mercato. Sono proprio la fine delle illusioni legate alla globalizzazione e il ritorno dell’intervento dello Stato nel Paese guida del capitalismo, seppure in forme funzionali all’accumulazione di capitale, a portare una ulteriore prova della necessità e quindi dell’attualità storica del socialismo.